Medico, durante la seconda guerra
mondiale, Alberto Burri vive tutte l' esperienze negative che un guerra possa
offrire. Deportato come prigioniero nel campo di Hareford (Texas), e
brutalmente colpito da questo capovolgersi di eventi, Burri, decide di lasciare
la professione medica per dedicarsi interamente all'arte. Colmo di dolore e
provato dal drammatico ambiente che lo circonda dove tutto è spento, l'ex
medico decide che è arrivato il momento di curarsi.
Un sacco, un semplice e umile sacco di
juta (usato all'epoca per il trasporto di medicinali), colpisce la sua
attenzione: la salvezza di Burri. Sofferenza, angoscia, disperazione, tormento.
L'artista mette tutto nel sacco, che taglia e cuce, che strappa e rammenda. Non
sono i meccanici gesti di un medico qualsiasi ma è l'anima di Alberto stesso a
compierli; il dolore dentro di lui è talmente grande che sente il bisogno di
rigettarlo fuori, quasi a vomitarlo, e getta sul sacco anche della vernice
rossa, il colore che l'accompagna dall'inizio della sua sofferenza, il colore
delle ferite, il sangue umano. Tutta la sua fraudolente esistenza rappresentata
da un sacco macchiato e logoro, che urla
dolore da tutte le parti. Ma che trasmette e vuole insegnare a chi guarda:“ i
tessuti lacerati dalla violenza”, la realtà di Burri che si fa arte e l'arte
che si fa realtà. C'è pathos, c'è orrore e crudeltà ma c'è anche meraviglia,
difatti l'uso dei materiali usati dall'artista, se pur apparentemente informi,
fa si che nasca una perfezione cromatica e geometrica, in cui linee, forme e
colori sono assolutamente equilibrati ed equabili. La grandezza di Alberto
Burri sta nel fatto che esso, da una più totale sofferenza, sia riuscito a
creare una svolta positiva che, in un contesto del genere, rappresenta un
grande esempio di forza e speranza.
FRM
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